Un accordo Globale sul Clima non è efficace se non coinvolge tutti. Vediamo perchè.
Il dato è arrivato in questi giorni dall’European Energy Agency, l’Agenzia Europea per l’Energia: l’Unione Europea ha ridotto le emissioni di Co2 del 23 per cento rispetto ai valori del 1990. Secondo gli obiettivi 2020 sul clima l’Europa doveva raggiungere, entro il 2020, almeno il 20 per cento di taglio delle emissioni.
Al 2020 mancano ancora quattro anni e, secondo le previsioni, la riduzione in Europa arriverà a circa il 25%. Obbiettivo europeo sul clima, dunque, raggiunto e superato, con qualche anno di anticipo. Ma si tratta di una reale vittoria? No, perchè non tiene conto della crisi economica congiunturale e delle delocalizzazioni produttive: se l’industria in Europa chiude e delocalizza, vuol dire che le emissioni di CO2 non vengono ridotte, ma vengono spostate in altre aree del Pianeta.
In un’economia totalmente globalizzata, come quella in cui ormai ci ritroviamo a pieno titolo, ha ancora senso parlare di “obiettivi europei” o di “obbiettivi nazionali” sulle emissioni? Il mondo ormai totalmente globalizzato ha bisogno di nuove chiavi di analisi, di un nuovo “paio di occhiali” con cui guardare la realtà.
Dalla relazione dell’EEA “Trends and projections in Europe 2015” emerge, tutto sommato, un dato apparentemente incoraggiante, anche se gli obbiettivi fissati erano tutt’altro che ambiziosi. Per avere una panoramica realistica, però, è necessario considerare le emissioni prodotte dai nostri beni di consumo alla fonte: Cina, Asia, India, ecc…
Si calcola che oltre un terzo delle emissioni legate al consumo di beni e servizi nei paesi occidentali viene generato al di fuori dei propri confini: si tratta di una vera e propria “delocalizzazione delle emissioni” legate alla produzione dei beni e servizi, un vero e proprio “outsourcing dell’inquinamento”. In altre parole, è come se ci fosse della CO2 incorporata in ogni prodotto o servizio che utilizziamo, la CO2 sprecata nei processi di produzione e trasporto.
Se nei parametri oggetto di indagine considerassimo anche le emissioni inquinanti prodotte alla fonte per realizzare l’energia e le merci che circolano in Europa, i dati cambiano considerevolmente. In Italia, ad esempio, le emissioni pro-capite effettive aumenterebbero di un quarto. Nel Regno Unito salirebbero del 34%.
Secondo molti, per dis-incentivare la produzione delle emissioni “alla fonte” è necessaria una “Carbon Tax”, una tassa che venga applicata alla fonte del processo produttivo e che renda meno conveniente l’estrazione originaria delle fonti fossili necessaria a produrre energia su tutta la filiera.
Secondo quanto citato da “Carnegie Institution” la Carbon Tax sarà la ricetta per affrontare il problema: spostare alla radice della “catena delle emissioni” la regolamentazione della CO2 è la soluzione per dis-incentivarla in maniera efficace. La concentrazione geografica dei combustibili fossili suggerisce, infatti, che imporre delle restrizioni già al pozzo, alla miniera o alla raffineria renderebbe minimi sia i costi di transazione che i meccanismi di elusione, a patto, ovviamente, che il meccanismo dis-incentivante non riversi i costi sugli utenti finali della filiera.
“Tecnologie energetiche pulite, fotovoltaico, fonti rinnovabili: queste le leve per uno sviluppo sostenibile e consapevole. Il giornalismo ambientale e le nuove tecnologie sono ottimi strumenti di condivisione per tracciare nuove strade”
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