Nel 2013 il settore delle fonti inquinanti, i grandi gruppi energetici del gas, del carbone e del petrolio, ha investito 950 miliardi di dollari. Cifre da capogiro che dimostrano che il settore, ancora, non ha recepito i rischi ed i limiti dell’investire sullo sviluppo delle obsolete fonti fossili.
Questi ingenti investimenti sul fronte delle fonti fossili rischiano di non restituire il ritorno economico sperato, visti i pericoli ed i rischi che queste fonti comportano sul fronte dei cambiamenti climatici. Sul fronte internazionale ci si sta muovendo, finalmente, per limitare la riduzione delle emissioni, come emerso dalla COP21 (conferenza internazionale sul clima) appena conclusasi a Parigi.
Quando si fanno le considerazioni economiche su grandi progetti petroliferi o di ricerca di nuovi giacimenti, infatti, non si tiene conto dei costi economici, ambientali e sanitari conseguenti all’utilizzo di queste fonti inquinanti. Questi costi finiscono in genere a carico della collettività.
Le giuste valutazioni economiche devono considerare, invece, tutta la filiera della produzione, del consumo e dello smaltimento delle fonti utilizzate. Non solo: devono considerare anche e soprattutto le conseguenze sociali. Se consideriamo tra i costi di investimento tutte la variabili in gioco, incluse le prospettive politiche di contrasto alle emissioni, gli investimenti attivati oggi sul versante delle fossili saranno senz’altro investimenti a perdere, perchè non considerano i rischi climatici ed il cambiamento di rotta necessario oggi sul fronte della produzione energetica. Il valore dei giacimenti di gas, petrolio e carbone sono oggi sempre più a rischio.
Secondo Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club e della rivista Qualenergia, sono necessarie azioni decise per accompagnare quel processo di transizione energetica che, a quanto assistiamo, è già iniziato a livello globale. Greenpeace è riuscita a bloccare le esplorazioni artiche della Shell per l’individuazione di nuovi giacimenti. Obama ha deciso di bloccare il progetto dell’oleodotto Keystone per motivi legati al rischio climatico. E’ nata una campagna internazionale, la “Divest Fossil”, che propone di dismettere le azioni delle aziende legate al petrolio, carbone e gas. L’Agenzia Internazionale dell’Energia e la Banca Mondiale rimarcano, in ogni occasione, la necessità di eliminare i sussidi ai combustibili fossili (oggi i combustibili fossili godono di importanti spinte incentivanti). Anche la COP21 di Parigi ha innalzato le attenzioni su questi temi. In Italia, inoltre, si parla di un referendum sulla trivellazioni per il 2016.
In un modo e nell’altro, insomma, le multinazionali dell’energia fossile dovranno fare i conti con le limitazioni ed i vincoli imposti a livello politico sul fronte delle emissioni climalteranti.
Se, da un lato, molte utility energetiche investono a fanno scelte strategiche ancora in maniera “convenzionale” , dall’altro diversi player del settore iniziano a diversificare il proprio “core business” inserendo ingenti quote di fonti rinnovabili. Si pensi, ad esempio, a Statoil che sta puntando a diversificare il proprio “core” verso l’eolico off-shore o alla Total che ha già incluso il solare fotovoltaico nelle proprie strategie di investimento. Anche i Paesi Arabi, tradizionalmente legati al Petrolio, stanno diversificando verso le fonti rinnovabili. Questo sono scelte, anche dal punto prettamente economico, decisamente lungimiranti.
La transizione energetica, dunque, è già in atto, anche se al momento il costo del gas e del petrolio è sceso a livelli raramente raggiunti prima. In ogni caso la sfida del clima porterà a disincentivare gli investimenti verso le fonti fossili e ad aumentarne gradualmente i rischi per renderli antieconomici.
“Tecnologie energetiche pulite, fotovoltaico, fonti rinnovabili: queste le leve per uno sviluppo sostenibile e consapevole. Il giornalismo ambientale e le nuove tecnologie sono ottimi strumenti di condivisione per tracciare nuove strade”
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